Professione: venditore

Come sconfiggere il «mal di vendita» e allinearsi alle esigenze del mercato

Uno degli elementi più paradossali della cultura del lavoro in Italia è che la competenza professionale trasversalmente più richiesta, quella commerciale, sia anche quella più negletta. Il neolaureato storce il naso se gli viene proposto un ruolo nelle vendite, l’avvocato storce il naso se gli viene detto che deve impegnarsi a trovare nuovi clienti, il bancario storce il naso se gli viene detto che alla cassa deve convincere il signor Rossi a stipulare una nuova polizza. In molti colloqui con un malcelato orgoglio etico e intellettuale il candidato ammette: «Vendere non fa per me».

E spesso la parola venditore viene utilizzata come aggettivo, ad indicare un mix di furbizia, faciloneria, pedanteria, venalità.
Così quando leggiamo gli annunci di ricerca di agenti di commercio, sales manager, business development manager, informatori scientifici del farmaco (dire venditore di medicine sarebbe politicamente scorretto), promotore finanziario, l’immagine che ci appare non è quella del mercante rinascimentale, ricco, colto e brillante, ma quella di «Morte di un commesso viaggiatore», quella di un uomo con l’abito liso e le scarpe consumate che apre una valigetta ed estrae la brochure, aggrappato alla precaria sorte dei suoi contratti. «La Direzione Vendite è solo barzellette e bugie», ho sentito dire recentemente durante un colloquio di lavoro.

Questo modo di guardare alla vendita e a chi vende si scontra con l’evoluzione del mercato del lavoro: la competizione globale, le nuove tecnologie e la diffusione planetaria delle informazioni stanno trasformando sempre di più le economie sviluppate in economie di servizi ad alta personalizzazione, in cui le aziende competono soprattutto attraverso la ricerca di un rapporto unico e personale con i loro clienti, un rapporto che passa attraverso le capacità di chi presidia il mercato. In questo scenario il mercato del lavoro continuerà a perdere operai, tecnici, «confezionatori di prodotto» e chiederà sempre più addetti e competenze commerciali. È la traiettoria professionale già toccata in sorte a milioni di lavoratori in tutto il mondo: lo stabilimento, l’ufficio, la filiale, il dipartimento vengono accorpati e ridimensionati, e gli esuberi vengono mandati «in rete», «sul mercato», al «front office», a «fare sviluppo». Sempre di più lavorare significa vendere qualcosa o quantomeno supportare da vicino la vendita di qualcosa.

Anche i liberi professionisti, una volta al riparo dalla spietata competizione di mercato, oggi per affermarsi sono chiamati a coniugare competenze tecniche e competenze commerciali. In questo contesto ha senso che il sistema socio-economico si tenga il suo «mal di vendita», i suoi pregiudizi e luoghi comuni? È un tema culturale che poi però si riverbera nella disoccupazione dei giovani e nella disperazione di chi a cinquant’anni si ritrova a dire «ma io come faccio adesso a vendere se non l’ho mai fatto e soprattutto se non mi piace?».
Per guarire dal “mal di vendita” e allineare la nostra cultura del lavoro con le esigenze del mercato dobbiamo sfidare tre nemici, e per sfidarli dobbiamo imparare a a riconoscerli.

Il primo nemico è un pregiudizio etico.

Etica e successo commerciale nel sentire comune sono diffusamente percepite come entità tra loro contrapposte. Le culture derivate dal socialismo e da un certo pauperismo di matrice religiosa hanno determinato una sorta di complesso di colpa collettivo: creare ricchezza significa sottrarla a qualcun altro. L’amministratore delegato che che racconta agli investitori i suoi progetti per la scolarizzazione dell’Africa e il promotore finanziario che descrive al cliente i suoi impegni parrocchiali stanno entrambi facendo i conti con il medesimo complesso di colpa. Senza entrare in considerazioni ideologiche è bene affiancare alle legittime riserve etiche su tanti successi commerciali una riflessione liberatoria sul fatto che vendere un prodotto, un servizio, un brevetto, un’ azienda significhi anche benessere collettivo, progresso scientifico, realizzazione di talenti, passioni, progetti personali.

Il secondo nemico è un pregiudizio intellettuale.

L’attuario è un intellettuale, l’agente assicurativo un piazzista. Il direttore marketing è un intellettuale, il direttore vendite un piazzista. Dei bravi imprenditori lodiamo la creatività, l’intuito, il genio, e mai l’abilità commerciale (che è invece quasi sempre al centro di ogni storia di successo). In effetti l’economia fordista del Novecento aveva costruito un modello di venditore che consegnava prodotti e illustrava cataloghi e brochure. Non c’era bisogno di studio, di laurea, di enormi competenze tecniche. Nel terzo millennio però la brochure le consultiamo su Internet e i prodotti ce li consegna Amazon. Di conseguenza oggi il commerciale esiste solo dove c’è complessità del prodotto, competizione, clientela informata. E dunque esiste solo dove può fare la differenza, diventando parte integrante del prodotto/servizio con la sua cultura, la sua preparazione, la sua curiosità intellettuale.

Il terzo nemico è un fantasma psicologico.

Vendere non piace al neolaureato come al grande professionista perché l’essenza emotiva dell’attività di vendita sta nella gestione della paura di sentirsi respinti: io propongo il valore di un bene o di un servizio ad un altro essere umano, esponendomi alla possibilità che il mio interlocutore mi dica no, alla possibilità che mi opponga un rifiuto.

Se impariamo a riconoscere questi tre nemici possiamo sviluppare una cultura del lavoro più “amica” della vendita, e dunque più allineata con le esigenze del mercato del lavoro contemporaneo. La scuola, l’università, il mondo delle professioni e le stesse aziende, ciascuna nel proprio ruolo, devono rilanciare il valore etico e intellettuale dell’attività di vendita. E ricordiamoci che questa vocazione commerciale che è parte costitutiva e qualificante della nostra vocazione imprenditoriale ce l’abbiamo nel DNA. Guardiamo alla nostra storia economica, ma guardiamo anche ai giochi dei nostri figli o di quando eravamo noi bambini: fare i conti alla cassa, allestire mercatini, confezionare prodotti per i genitori e gli amichetti alla ricerca di questa o quella ricompensa.

di Lorenzo Cavalieri, Managing Partner della società di consulenza e formazione Sparring

fonte: Il Sole 24 Ore

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